
Una tragedia che cambiò per sempre il rapporto tra media, soccorritori e opinione pubblica
Il 13 giugno 1981 si spegneva, nel pozzo artesiano di Vermicino, il piccolo Alfredo Rampi, detto Alfredino. Aveva solo sei anni. Il suo volto, il suo nome e la sua storia sono entrati per sempre nella memoria collettiva italiana, in un tempo in cui la televisione in diretta cominciava appena a mostrarsi nella sua potenza, nella sua capacità di raccontare il dolore.
Tutto iniziò pochi giorni prima, quando Alfredino cadde in un pozzo profondo oltre 60 metri e largo appena 30 centimetri, nelle campagne di Frascati, vicino Roma. La famiglia Rampi si trovava lì per una passeggiata serale e la scomparsa del bambino diede subito il via alle ricerche. Solo ore dopo si scoprì che il piccolo era intrappolato sottoterra. Da quel momento, si scatenò una corsa contro il tempo. I soccorsi, pur animati da una straordinaria volontà, furono segnati da improvvisazione, ritardi, errori tecnici e una mancanza di coordinamento.
La Rai, per la prima volta, mandò in onda una diretta no stop che entrò nelle case degli italiani e li inchiodò davanti al dramma. Le parole spezzate del bambino, il suo pianto, la voce del Presidente Pertini che giunse sul luogo, la speranza che si spegneva lentamente: tutto fu trasmesso in tempo reale.
Quando Alfredino fu dichiarato morto, l’Italia si risvegliò come da un incubo. Si parlò di tragedia, ma anche di spettacolarizzazione del dolore. La vicenda aprì un dibattito profondo su etica dell’informazione, sui limiti del mezzo televisivo e sull’organizzazione dei soccorsi nel nostro Paese. Da quella tragedia, però, nacquero anche cambiamenti importanti. Fu fondata la Protezione Civile come corpo strutturato ed efficiente, vennero introdotte nuove norme per i soccorsi e si cominciò a riflettere seriamente sull’importanza della prevenzione.