
Fino ad allora, sia nei rapporti patrimoniali che in quelli personali, nella famiglia vigeva la subordinazione della moglie al marito, mentre risultavano discriminati i figli naturali illegittimi, ossia quelli nati fuori dal matrimonio
Il 19 maggio 1975, con una nuova legge che prevedeva la modifica del diritto di famiglia, l’Italia disse addio alla società patriarcale: fu un momento storico fondamentale. Fino ad allora, infatti, sia nei rapporti patrimoniali che in quelli personali nella famiglia vigeva la subordinazione della moglie al marito, mentre risultavano discriminati i figli naturali illegittimi, ossia quelli nati fuori dal matrimonio.
Con la riforma, venne dato un senso più democratico al concetto di famiglia, dando la uguale parità tra i coniugi, posta come base imprescindibile, e con essa nacquero la comunione dei beni come regime patrimoniale automatico, mentre la potestà patriarcale sui figli venne sostituita dalla potestà di entrambi i genitori. Fu un grande passo avanti anche per le questioni ereditarie, in quanto in precedenza, in caso di decesso del marito, alla moglie non spettava nulla.
Fino ad allora i limiti erano stati molti e pesanti: il marito-padre era il “capo della famiglia”: “la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”: ecco cosa recitava l’art. 144 del Codice Civile. Con la riforma, si stabiliva, invece, che la residenza della famiglia e l’indirizzo della vita familiare fossero decisi insieme da moglie e marito e che i coniugi avrebbero potuto avere ciascuno un proprio domicilio nella “sede principale dei propri affari o interessi” (nuovo art. 45 del Codice Civile).