Immagini dal Sannio: le storiche battaglie beneventane, da Pirro a Manfredi

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Possiamo leggerne sui libri di storia, ma anche sulla più grande opera letteraria mai edita nel mondo: parlo della Divina Commedia, precisamente del Purgatorio, nel canto III, in cui Dante racconta l’epico episodio accaduto nella città di Benevento. Andiamo con ordine. Se parliamo di Battaglia di Benevento, in realtà dobbiamo farlo al plurale. La prima è quella del 275 a.C. che vide opporsi l’esercito romano contro quello invasore di Pirro, re dell’Epiro. Fu una battaglia verificatasi tra le legioni romane guidate dal Generale Manio Curio Dentato e il condottiero Pirro, nell’ambito delle guerre pirriche, che videro Roma contro le città della Magna Grecia, nel sud Italia. Essa rappresenta la conclusione delle campagne italiche di Pirro. Terminate vittoriosamente le guerre sannitiche, la politica espansionistica romana premeva sulle città della Magna Grecia, in particolare su Taranto, per la sua importante posizione strategica. Taranto era una città della Magna Grecia, fiorente e molto potente, ma i suoi cittadini erano perfettamente consapevoli del fatto di non poter competere in alcun modo, a livello militare, con i Romani. La richiesta di aiuto a Pirro, grande sovrano d’Epiro, fu proprio una strategia militare per potersi livellare, almeno un po’, con il più glorioso esercito del mondo. Pirro, desideroso di vittorie, voleva ampliare il proprio regno in Italia e conquistare la Sicilia per espandersi poi in Africa, per cui accettò molto volentieri l’invito din dare una mano di aiuto ai tarantini. Sbarcò in Italia e questo fu visto come un atto bellicoso di importanza estrema. Il condottiero portò con sé un nutrito esercito composto da diverse unità armate, come fanti macedoni, cavalieri, arcieri e frombolieri, specializzati nel lancio di pietre e sassi, Inoltre, elefanti da guerra indiani che rappresentavano il vero e proprio asso nella manica dell’esercito pirrico.

Quando l’esercito di Roma, che nel frattempo aveva riconquistato tutte le posizioni nell’Italia meridionale e minacciava nuovamente Taranto, lo aspettava a Maleventum, fu per costringerlo a togliere l’assedio alla città pugliese. I Romani avevano imparato a conoscere gli elefanti da guerra utilizzati dal sovrano epirota. Inoltre, continui attacchi indebolirono e sfiancarono la cavalleria, mentre la falange venne definitivamente annientata. La tradizione romana parla di 23 mila nemici uccisi e di 1.300 prigionieri, due elefanti da guerra abbattuti e otto catturati, mentre quattro furono portati vivi a Roma, fatto che suscitò grande attenzione, curiosità e anche ilarità fra i cittadini. In seguito alla vittoria romana la città di Maleventum venne ribattezzata Beneventum, data la felice circostanza.

La seconda battaglia, forse la più celebre, avvenne il 26 febbraio del 1266 tra Manfredi di Svevia e Carlo d’Angiò, per il possesso dell’Italia meridionale, il cui esito avrebbe deciso i destini dell’Italia, in particolare del papato, per i secoli a venire. Manfredi di Svevia guidava il partito ghibellino e il suo intento era quello di dare una unità politica all’Italia, opponendosi al papato. Il papa di allora era il francese Clemente IV. Questi chiese a Carlo d’Angiò, fratello minore del re di Francia Luigi XI, di venire in Italia e sconfiggere Manfredi. La battaglia decisiva avvenne proprio a Benevento e fu lo svevo a uscirne sconfitto. Il suo corpo venne ritrovato e riconosciuto solo alcuni giorni dopo e inumato poco distante dalla Chiesa di Santa Maria della Gradella. Si trattava della classica contesa tra Guelfi e Ghibellini, Papato e Impero. Una contesa molto sentita, in quel periodo, tanto che fu al centro di buona parte della Commedia dantesca e proprio Dante dedicò a Manfredi un capitolo molto interessante. Quel 26 febbraio, inizialmente sembrò che l’angioino fosse costretto a fare dei passi indietro. Gli angioini, però, si accorsero da subito che gli avversari avevano una falla nelle loro armature, che non li proteggevano sotto le ascelle. Una nota dolente per costoro che rimanevano scoperti quando, nel combattimento, sollevavano le braccia. Fu un pretesto per farli sentire oppressi dalla loro forza. Carlo e i suoi uomini si avventarono contro i nemici sul Ponte Calore e fu così che batterono in ritirata. La maggior parte dei nobili siciliani abbandonarono Manfredi, ma proprio questo, alla fine, si gettò nella mischia trovando una morte eroica, combattendo con fervido valore. Riconosciutone il corpo, fu seppellito sul campo di battaglia sotto un mucchio di pietre e con lume spento, così come avveniva per gli eretici e gli scomunicati, su istigazione del vescovo di Cosenza, Bartolomeo Pignatelli.

Nel loro incontro, Dante ricorda che le ossa dello sfortunato re furono disperse per volere dei religiosi, in quanto il povero Manfredi era stato scomunicato dal papa, non lasciandolo riposare “in co del ponte di Benevento, sotto la guardia della grave mora”. Queste parole di Dante sono state interpretate in vari modi, e non vi è concordanza alcuna tra le varie ipotesi del luogo di sepoltura dello svevo, così come del resto permangono dubbi sulla reale ubicazione del campo di battaglia. Nel 1921, cento anni fa, in occasione del seicentenario della morte di Dante Alighieri, a Benevento venne realizzato un monumento che ricordasse Manfredi, sull’attuale ponte Vanvitelli, verso la campagna, luogo che la maggior parte degli studiosi indica come quello della celebre battaglia. che, secondo diversi studiosi, potrebbe coincidere con il luogo della probabile sepoltura del re svevo. L’opera portò la firma del professore Nicola Silvestri, artista beneventano. Su una stele marmorea venne collocato un bassorilievo di bronzo con l’immagine dell’incontro nel Purgatorio tra Manfredi e Dante. Un monumento che non ebbe molti consensi e che venne eliminato fino a che fu deciso di ripristinarlo, realizzandolo ex novo, su disegno architettonico di Renato Bardoni, mentre il bassorilievo con l’incontro tra Dante e Manfredi fu realizzato dallo scultore Bruno Mistrangelo.

Una curiosità: soltanto in seguito alla morte di Manfredi, i popoli oppressi dal dominio angioino, pentiti della grave dipartita, lo ricordarono così: “O re Manfredi, non ti abbiamo conosciuto vivo; ora ti piangiamo estinto. Tu ci sembravi un lupo rapace fra le pecorelle di questo regno; ma da che per la nostra volubilità ed incostanza siamo caduti sotto il presente dominio, tanto da noi desiderato, ci accorgiamo infine, che tu eri un agnello mansueto. Ora sì che conosciamo quanto fosse dolce il governo tuo, posto in confronto dell’amarezza presente. Riusciva a noi grave in addietro che una parte delle nostre sostanze pervenisse alle tue mani, troviamo adesso che tutti i nostri beni, e quel che è peggio, anche le persone vanno in preda a gente straniera!”









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