Immagini dal Sannio: l’eremo di San Michele di Frasso Telesino e il Majo

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La chiesetta di San Michele in lontananza.
Foto di Giovanni Forgione

San Michele Arcangelo è il protettore dei protettori, l’arcangelo guerriero, l’avversario di Satana e di tutti quegli angeli che si sono rivoltati contro Dio, colui che ha guidato l’esercito celeste nella battaglia contro gli angeli ribelli di Lucifero. È l’angelo che ci è vicino in ogni sfida quotidiana, il protettore dal male. Nell’iconografia religiosa molto spesso viene associato alla figura di Eracle, il guerriero per antonomasia.
Non sono poche le testimonianze dedicate al culto del Santo in Campania e molte sono le chiesette rupestri rinvenute nella zona volturnense e matesina, ove appare evidente la preponderanza dei santuari micaelici. Non c’è da stupirsi: il fenomeno è dovuto non solo per la natura e la collocazione delle cavità, spesso connesse alla presenza dell’acqua, ma anche per la fama della grotta dell’arcangelo sul Gargano, il più antico dei luoghi di culto occidentali dedicati a San Michele.

Il culto micaelico si diffuse nel Sannio grazie ai Longobardi che si convertirono al Cristianesimo nel VII secolo, per via della possente opera di evangelizzazione svolta da San Barbato, vescovo di Benevento. Qualche testimonianza si trova nell’areale del Taburno.
Nel territorio di Frasso Telesino, ad esempio, c’è una struttura sacra dedicata al santo guerriero di cui restano tracce sulla sommità del Monte Sant’Angelo. Con la fondazione della chiesa Collegiata del Corpo di Cristo, nella metà del 1500, la chiesetta di San Michele venne annessa a essa, come attestato da un documento del 1742. La chiesa restò vittima del terremoto del 5 giugno 1688, che la danneggiò in modo considerevole.
Una unica navata e avanti alla porta, secondo una descrizione tramandataci, tre gradini e un ballatoio in pietra viva, con accanto la fontana della Trinità. All’interno, in una nicchia, la statua in pietra garganica dell’angelo faceva bella mostra. Ancora, un’acquasantiera, un confessionale, un altarino e un piccolo quadro con l’effige del Santo.
La chiesa, a partire dalla fine del 1600, venne custodita da eremiti, pii laici, o semireligiosi che si prendevano cura delle piccole cappelle di campagna e che, una volta all’anno, venivano convocati in cattedrale dal vescovo, in occasione della festività di San Menna, il quale li invitava a render conto del loro operato.

Il Majo di San Michele.
Foto di Sergio Amore

La tradizione vuole che il 7 maggio, uno dei giorni in cui si celebra San Michele Arcangelo, si porti in processione la statua del Santo, che parte dalla chiesa di Santa Giuliana e arriva proprio nell’eremo. Nel giorno dell’altra celebrazione liturgica del Santo, il 29 settembre, la statua ritorna nella sua chiesa in paese.
E durante la celebrazione di maggio, nei diversi quartieri di Frasso si rinnova l’antico rito di accensione del Majo, molto sentito dalle popolazioni di stirpe germanica, come quella longobarda, dove vi era un’ampia diffusione di riti pagani della primavera che rievocavano la fecondazione e la rigenerazione della natura.
Nei vari quartieri di Frasso, dunque, un grande falò prende vita dalla legna raccolta nei boschi circostanti, accatastati intorno a un grosso albero posto al centro e fissato nel terreno, privato dei rami. In passato, il Majo veniva abbellito da ghirlande fatte di ginestra fiorita intrecciata.
Mentre il fuoco brucia, canti sacri e popolari, tra cui il moifà, danno vita a balli e a festosi banchetti. Un rituale che oltre a onorare il Santo vuole inoltre fugare gli spiriti dell’inferno.
Una tradizione che ancora una volta dà il benvenuto alla stagione della rigenerazione della vita di cui la Primavera stessa è portatrice.