Immagini dal Sannio: mietitura e trebbiatura, attività di un territorio rurale

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La mietitura arcaica del grano.
Foto di Angelo Siciliano

È tempo di lavorazione del grano imbiondito e antichi rituali si affacciano nella memoria di tutti i sanniti e di ogni comunità agricola. Il ciclo agricolo della lavorazione del frumento è annuale e culmina con le attività di mietitura e trebbiatura, fasi fondamentali volte alla separazione del prodotto finale dai suoi scarti. Lavoro che solitamente si effettua nei mesi di giugno e luglio, quando il grano ha raggiunto la secchezza ideale per la lavorazione.
Oggi, con la meccanizzazione, i chicchi di grano vengono portati alla macinatura dopo il passaggio nella mietitrebbia, ma un tempo la lavorazione era manuale. E i ricordi di chi ha vissuto quei momenti sono ancora vivi. Come avveniva con altre attività agricole importanti, come la vendemmia o anche la produzione di conserva di pomodori in casa, si trattava di un evento molto atteso: le famiglie venivano coinvolte nella raccolta, nella trebbiatura e nella battitura del grano.

Erano tante le persone interessate e ci si scambiavano mani di aiuto e ore di lavoro. Uomini, donne e bambini avevano una mansione ben precisa e tutti i componenti delle famiglie e i loro vicini di casa partecipavano alla tradizionale attività.
Il grano veniva mietuto a mano, compito gravoso e impegnativo che coinvolgeva tutti coloro che sapevano utilizzare la falcinella, quando ancora non si sapeva cosa fossero le falciatrici o le mietitrebbiatrici. I mietitori indossavano degli anelli di alluminio affinché venissero protetti dalle falcinelle affilate. Gli uomini mettevano diversi mazzi di spighe, i mannelli, sul terreno e questi venivano poi raccolti e assemblati dai più giovani, che li legavano per formarne dei covoni, che venivano posizionati verticalmente per poterne facilitare l’essiccazione.
Prima dell’avvento della mietitrebbiatrice, il grano veniva battuto sull’aia e dei buoi bendati con gli zoccoli separavano il grano dalla spiga. Perché erano bendati? Era un modo per evitare che i buoi, invece di camminare, si fermassero a mangiare. Gli uomini, invece, battevano il grano con dei pali, per cui il termine battitura. I covoni trasportati sull’aia venivano posizionati a forma di barca, a rappresentazione dell’arca di Noè.

Le operazioni di trebbiatura, a seconda della quantità dei covoni da sgranare, richiedevano un gran numero di operai che andavano da trenta a ottanta in base alla dimensione della trebbia. Si incominciava a trebbiare quando era molto presto, in orari in cui si sentiva solo il rombo della trebbiatrice e si diffondeva il denso polverone della pula, l’involucro del grano che sarebbe diventato alimento per la vacche. Quel grande macchinario, solitamente arancione, dotato di cinghie e pulegge, catturava l’attenzione dei più piccoli. Gli uomini, con la loro forza, non si fermavano un momento e si davano da fare per non perdere un anello della lunga catena di lavorazione.
Una volta raccolto, il grano veniva messo in sacchi che poi venivano pesati: una parte era destinata al padrone e un’altra trasportata nella casa colonica, destinata al contadino.

La trebbiatura.
Foto di Agriturismo L’Ulivo

Il lungo lavoro veniva interrotto solo dal pranzo: le donne che avevano il ruolo di cuoche, e che già a casa avevano preparato cibi a base di brodo, insalata, tagliatelle al ragù, carne e frutta, erano ben contente di poter sfamare tutti coloro che avevano partecipato al duro lavoro. A volte bastavano solo pane, frittata e formaggi. Bottiglie di vino rosso, talvolta anche bianco, venivano tenute al fresco dentro a un secchio ricoperto di ghiaccio, panni freschi e spesso immerso in un pozzo tramite la carrucola. Spesso non mancava del buon vin santo invecchiato di qualche anno. Il caffè, in comodi thermos, non mancava mai e spesso veniva servito con un po’ di anice. Si mangiava distesi a terra o seduti all’ombra degli alberi, tra canti e allegre risate. Ricordi mai assopiti, ancora vivi nella memoria dei più anziani. Memorie che fanno parte di una vita piena di sacrifici, i cui racconti non stancano mai.