Parla il marito dell’infermiera stuprata: “non mi perdonerò mai, perché nessuno l’ha protetta?”

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La Repubblica ha raggiunto, telefonicamente, il marito della povera infermiera avellinese, stuprata in pieno centro a Napoli, mentre aspettava l’autobus per ritornare a casa, dopo una faticosa giornata di lavoro. “Quel pomeriggio ero a casa, stavo aspettando il rientro di mia moglie. Sa, quando ha dei turni che finiscono la sera tardi o la domenica nella controra vado a prenderla per portarla a casa, ad Avellino. Ma con l’emergenza Covid non potevo usare l’auto e così ci siamo arrangiati con i mezzi pubblici che hanno le corse ridotte. Non ero preoccupato, conosco bene la zona del parcheggio Metropark e anche io prendo spesso gli autobus. Di solito c’è sempre gente per il gran movimento di autobus che partono per molte località della regione e anche di altre zone d’Italia. Immaginarsi l’intero parcheggio completamente deserto e senza neanche dei custodi o degli addetti non era possibile. A un certo punto ha squillato il telefono. Cosa farebbe se sentisse dall’altra parte sua moglie che singhiozza, le parole ‘sono stata aggredita’, poi ancora di seguito ‘sto andando in ospedale’ e, quindi, un poliziotto che mi chiede di raggiungerli in ospedale, al Cardarelli? Non ricordo neanche come sono arrivato all’ospedale Cardarelli, a Napoli… ma quando mi sono mosso non avevo ancora capito cosa era successo, non fino in fondo.

L’uomo racconta di quando è entrato all’ospedale Cardarelli di Napoli: “Sono subito entrato al triage dell’ospedale Cardarelli perché sono un medico. E ho visto mia moglie seduta su una sedia. Non mi rendevo conto di niente. Ma senza sapere ho cominciato a piangere perché ho visto il volto spento di mia moglie. Spento, buio. Non c’era più la sua luce di sempre, il suo bel sorriso. Era assente. C’era ma non c’era e io volevo sapere ma non volevo sentire… Ero lì come intontito. Si va in tilt… Fino a quando non sono riuscito a portarla a casa non ho realizzato l’accaduto. Lei a casa mi ha raccontato tutto quello che le era accaduto, nei dettagli. Ero terrorizzato mentre la ascoltavo. Mi sono scosso quando mi ha detto che per liberarsi si era aggrappata al cassonetto dei rifiuti. Mia moglie aggrappata a un cassonetto dei rifiuti senza difesa… da quel momento è cominciato il mio vero incubo, la domanda ricorrente che non mi lascia più.

Quarantacinque minuti, il tempo della violenza subita da mia moglie con quell’uomo che le stava addosso sulla schiena e cercava di strapparle i vestiti di dosso con il braccio stretto al collo rischiando di soffocarla. Quarantacinque minuti… Cosa stavo facendo io in quei quarantacinque minuti? Stavo seduto sul divano in quei quarantacinque minuti? La donna della mia vita stava lottando con le unghie e con i denti per salvarsi in quei quarantacinque minuti ed io, io perché non ero lì? Perché qualcuno dal cielo non mi ha detto di andare a prenderla senza pensare ai divieti, di andare e basta? E mi chiedo anche: perché nessuno stava guardando quelle telecamere in quei quarantacinque minuti? Perché nessuno ha protetto mia moglie al posto mio? Allora le telecamere in diretta nelle centrali operative delle forze dell’ordine sono soltanto roba da polizieschi americani? Nessuno le osserva quelle telecamere? Vorrei aiutarla ma sono ridotto come lei. Il mio cuore è andato in pezzi e mi sembra di non servire più. A nulla. Vorrei portarla a fare una passeggiata, vorrei portarla al mare e dimenticare tutto. Vorrei che tutto diventasse un brutto ricordo chiuso in un armadio“.









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