Immagini dal Sannio: il Bue Apis, storia d’Egitto e di vini

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L’antico blocco scultoreo

Apis è un dio egiziano venerato sotto le spoglie di un toro sacro attestato, secondo studi archeologici, già all’epoca della prima dinastia di faraoni. Era Menfi la città simbolo del suo culto, era lì che di tanto in tanto venivano organizzate feste per celebrarlo. Veniva scelto dai sacerdoti in base a certi particolari contrassegni: una macchia bianca sulla fronte a forma di triangolo, oppure una macchia a forma d’aquila sul collo, o ancora una macchia a forma di mezzaluna sul fianco. Quando moriva, veniva mummificato e conservato in un sarcofago e quindi assimilato a Osiride, diventando così una divinità funeraria. A Benevento c’è una statua in granito egiziano probabilmente legata al Bue Apis, o Api, proprio all’inizio del viale San Lorenzo, la strada che porta alla basilica della Madonna delle Grazie. Un grande blocco ritrovato nel 1629 oltre il fiume Sabato, nella località Casale dei Maccabei, fuori città, in direzione Avellino, collocata su un piedistallo davanti a porta San Lorenzo, una delle otto porte dell’antica città. I beneventani, amichevolmente, la chiamano A ‘ufara, la bufala. Il suo aspetto è tozzo e rozzo e molti sono i dubbi che si tratti di un simulacro del dio egizio. Alcuni elementi caratterizzanti Apis, infatti, mancano. Secondo Hans Wolfgang Müller, egittologo tedesco, uno di questi sarebbe il disco solare tra le corna che sono comunque deteriorate, l’indicazione del sesso, mentre il blocco presenta uno schema iconografico che si discosta di molto dalle figure egiziane di tori, ove solitamente le zampe vengono riprodotte in movimento. Eppure, l’ipotesi egizia va perfettamente a inserirsi nell’antica ritualità egitizzante di Benevento, ove il culto per la dea Iside si era ampiamente manifestato e sviluppato già nel II secolo a.C.,

Iside era una potente divinità dell’antico Egitto, sposa di Osiride, dea della Luna, della magia, della maternità, della fertilità e dell’agricoltura, versione esotica delle più importanti divinità romane al femminile. Domiziano pare fosse l’imperatore romano protetto dalla divinità egizia. Secondo la leggenda, durante i tumulti per la successione all’impero, dopo il suicidio di Nerone, l’imperatore Vitellio, temendo di essere spodestato da Vespasiano, cercò di ucciderne il figlio Domiziano arroccatosi sul colle Campidoglio, a Roma. Il giovane e futuro imperatore si travestì da sacerdote isiaco e, nascosto tra la folla, raggiunse l’Iseo del Campo Marzio dove trovò rifugio. Ecco la nascita del profondo legame tra l’imperatore e la dea, che Domiziano vedeva come una madre protettiva. Domiziano, addirittura, per atteggiarsi a faraone, si proclamò figlio della dea. Questo il motivo per cui fece erigere l’Iseo, il Tempio di Iside, proprio a Benevento, crocevia dei due mondi di cui si riteneva padrone unico e assoluto. Proprio qui, infatti, la via Appia e la via Latina si incontravano, nella città sannita, rendendola un importante nodo delle comunicazioni fra Roma e l’Oriente. A giudicare dall’esecuzione plastica, la scultura beneventana andrebbe assegnata alla tarda età imperiale, ossia alla fine del II secolo, e forse addirittura a un’epoca posteriore. Una simile datazione giustificherebbe il fatto che lo scultore egiziano non conoscesse più le caratteristiche iconografiche del dio ancora venerato. Comunque, fu l’egittologo francese Émile Étienne Guimet a considerare per primo che la statua fosse una rappresentazione della divinità egizia Api, da mettere quindi in relazione con il tempio di Iside eretto dall’imperatore Domiziano nel I secolo. Si narra che per il trasporto in città, dal luogo del ritrovamento, gli operai furono pagati in natura con un chilo di cipolla e una pagnotta di pane.

L’antico vigneto in località Pantanella

In questi giorni si sta parlando molto di Bue Apis, ma non in riferimento al blocco scultoreo della città sannita. Piuttosto, si fa riferimento a una peculiarità della zona, che riguarda la principale fisionomia economica della terra beneventana: il mondo enoico. Più precisamente, ci si riferisce a un vigneto di oltre 200 anni, che si trova alle pendici del Monte Taburno, precisamente a Vitulano, in località Pantanella, che produce ottima uva da cui un vino chiamato proprio Bue Apis, denso, corposo, già insignito di numerosi riconoscimenti nazionali, principale fonte di sostentamento di tantissime famiglie della zona. Il motivo per cui se ne sta parlando tanto è che risulta essere stato finanziato un progetto, per il cantiere della Fondovalle Vitulanese, strada che vuole collegare le regioni Campania e Molise, che vedrebbe l’esproprio dello storico vigneto. Un progetto dall’alto impatto ambientale che andrebbe a distruggere una importante identità storica e rurale. Non è nostro compito addentrarci in tale faccenda, ma la realtà sembra essere proprio questa. Ciò che conta è il frutto eccellente che nasce da questo grande appezzamento vocato alla coltivazione a raggiera libera: un ottimo vino che nasce da aglianico coltivato a 350 m.s.l.m.. L’uva fermenta per quaranta giorni a contatto con le bucce, prima di essere svinata in barriques per diciotto mesi. Da qui un vino che contiene tutte le essenze dei frutti di bosco, di spezie, e tabacco. Un sapore intenso, appagante e robusto, lusso e vanto della zona.









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