Immagini dal Sannio: Riccia, il settimo borgo più bello d’Italia

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Foto di copertina tratta da siviaggia.it

Riccia, il più importante paese fortorino che segna il confine tra Molise e Puglia, è da pochi giorni stato eletto settimo borgo più bello d’Italia nella classifica de Il borgo dei borghi, kermesse che vede contendersi l’ambito scettro da venti borghi caratteristici, uno per regione. Ed è proprio così: Riccia è Riccia, ed è difficile eguagliarlo. Un bellissimo centro molisano che almeno una volta deve essere visitato e ammirato, adagiato sul versante di una collina, incastonato in una ricca vegetazione, tra campi di grano, uliveti e boschi di frassini, faggi, cerri. La sua storia si fa risalire all’epoca dei Sanniti, così come attestano i vari ritrovamenti di diverse campagne di scavo succedutesi negli anni: tegole, oggetti in ceramica di uso quotidiano e cimeli dalle dimensioni più accentuate. Sembra, altresì, che i Sanniti avessero eretto in loco delle fortificazioni di confine. Lo storico Amorosa, invece, è sostenitore dell’origine da una colonia romana che, in seguito alla legge di Silla, si stabilì in loco, i cui abitanti provenivano dall’odierna Ariccia. “Aricia oppidum pro lege Sullana” è scritto in un testo delle Cronache delle Colonie, e il nome Riccia deriverebbe proprio dall’attuale centro del Lazio. Scarse sono le notizie risalenti al periodo longobardo e normanno, tra l’altro poco attendibili. Si sa solo che nel periodo longobardo, a Riccia venne edificata una prima rocchetta di guardia nel punto alto del paese. All’inizio della dominazione angioina, il feudo riccese venne concesso al giurista Bartolomeo de Capua, la cui famiglia restò nel centro molisano fino alla fine del periodo feudale.

Bellissimo il suo centro storico, con vicoli e stradine caratteristiche che si diramano qua e là. Il cuore antico dell’abitato ha origini medievali, ma una parte si è sviluppata tra XVIII e il XX secolo. La parte medievale, a pianta elicoidale irregolare, è sormontata dalla famosa e bella torre, uno dei simboli del paese. La zona più moderna, detta Terranova, ha una planimetria più regolare, con assi ortogonali che interessano l’area attorno al Municipio. Una bella passeggiata riccese può partire proprio dalla zona medievale dalla quale, attraverso le strette e ripide stradine e le scalinate in pietra, si può raggiungere la chiesa di Santa Maria delle Grazie, comunemente chiamata del Beato Stefano, che oggi si presenta così come l’aveva voluta Bartolomeo III nel 1500. La sua facciata, infatti, presenta dei lineamenti semplici ed essenziali, eleganti al contempo grazie alle laterali paraste in stile dorico e al portale con lo stemma della famiglia De Capua e l’iscrizione alla Madonna “In te domina spes mea”. Certamente non si sbaglia nell’affermare che si tratta di uno dei più importanti esempi di architettura rinascimentale molisana, la quale, data la vicinanza col castello, divenne una cappella gentilizia dei de Capua. All’interno, le tombe della famiglia de Capua, tra cui quella di Costanza di Chiaromonte, ripudiata dal re Ladislao d’Angiò nel 1392 e successivamente sposa di Andrea de Capua, e la sepoltura di Bartolomeo III. Un’acquasantiera molto particolare non sfuggirà all’occhio attento al bello: la sua particolare forma di conchiglia con all’interno tre pesci, simbolo della Trinità, e un serpente demoniaco, la rende una delle più belle esistenti. La chiesa Madre dedicata a Santa Maria Assunta risale al XIII secolo con un bellissimo portale gotico a sesto acuto. Nel Novecento venne rifatto completamente l’esterno anche se su modello medievale. L’interno è barocco, con impianto medievale a croce latina e con una cappella con volta a crociera e un dipinto affrescato con la Dormitio Virginis di Silvestro Buono, in cui la Madonna si trova esanime, distesa sul letto di morte ma con un viso rilassato e e sereno, con gli Apostoli intorno. Nella chiesa della Santissima Annunziata, risalente al 1378, vi è una sola navata. Essa ospita un dipinto dell’Annunciazione, con la Madonna e San Michele sovrastati da Dio Padre benedicente. L’altare maggiore fu consacrato dal cardinale Orsini, divenuto papa nel 1716.

In un antico edificio di Piano della Corte, il Magazeno, è insediato il Museo della Arti e delle Tradizioni Popolari, allestito nel 1997 per volere dell’associazione Il Tempo e la Memoria, che raccoglie antichi attrezzi da lavoro e tanti oggetti del passato. Ecco, dunque, u Paleméne, vasca scavata nella pietra locale all’interno della quale veniva pigiata l’uva per il vino, a testimonianza dell’eccellenza vitivinicola del borgo, e ancora u Muttille, imbuto in legno risalente al 1700. E inoltre, attrezzi atti alla tessitura della lana, della tela e dei tappeti, una bilancia da emporio del Nuovo Secolo, un antico aratro di legno, un abito da sposa della civiltà contadina, una vestaglia ricamata del ‘900, strumenti di musica popolare. Il castello, appartenuto ai de Capua. la cui origine è incerta, si trova sopra uno strapiombo roccioso, la cui torre aveva la funzione di vedetta. Il portale d’ingresso è sormontato da un’epigrafe in lingua latina datata 1515 che termina con la frase “Avvicinati, se sei ospite. Fuggi, se sei nemico, per non farti cogliere dall’ira di Giove”. La torre, che predomina l’intera vallata, ha una suggestiva forma circolare ed è alta una ventina di metri. Nel 1515, Bartolomeo III de Capua fece realizzare numerose torrette difensive e un fossato di cinta.

La torre

Vegetazione e natura incontaminata del circondario hanno una notevole rappresentanza nel Bosco Mazzocca, una distesa di latifoglie composta principalmente da frassini e cerri, della grandezza di circa 400 ettari. Inizialmente gli ettari erano 800, ma nel corso del XIX secolo la distesa fu disboscata a causa della popolazione che cresceva sempre di più. Le quote di terreno ricavate vennero assegnate gratuitamente ai contadini più poveri che non possedevano alcuna proprietà terriera. Oggi il bosco viene utilizzato principalmente per la produzione di legna da ardere, ma contiene anche percorsi ludici e ricreativi.

Riccia è molto nota per la festa dell’Uva che per la prima volta si tenne nel 1932 per celebrare l’antico rito della vendemmia. Ed è ancora così, nella seconda domenica di settembre si celebra la preziosa risorsa che è l’uva, con l’allestimento di carri allegorici su cui sono collocate le ricostruzioni ingigantite delle attrezzature della vinificazione, ricoperte da acini d’uva, fissati secondo colore e tonalità. I Carri diventano il simbolo del duro lavoro nei campi, e rappresentano scene di vita contadina abilmente ricostruite. Si tiene, inoltre, in un clima di festa e di forte spirito comunitario, una grande rappresentazione di ragazze in costume locale che distribuiscono uva, vino e specialità gastronomiche, e ancora sbandieratori e majorettes che si esibiscono nei canti che si facevano nei campi e che riecheggiavano nelle contrade cittadine al tempo dei raccolti, eseguiti oggi con gli strumenti di allora, la fisarmonica e l’organetto. Una festa che va a richiamare gli antichi rituali della produzione cerealicola e vinicola, principali attività del paese molisano, una manifestazione che viene considerata come il vero Carnevale del borgo. Anche la celebrazione di San Giuseppe ha una rilevante importanza nel borgo fortorino. Tutto ha origine dalla leggenda del Santo, nella quale si racconta che un uomo vecchio e povero girava di paese in paese chiedendo umilmente ricovero. La sua educazione non smuoveva la compassione di nessuno, per cui veniva ignorato da tutti. Quando giunse a Riccia trovò finalmente ospitalità da parte di un uomo che lo accolse nella sua casa. Questi non era certamente benestante, ma comunque scelse di dividere con il povero tutto ciò che possedeva in dispensa, a partire dai legumi coltivati nel suo orticello, particolarmente i ceci. C’è da dire, tra l’altro, che la collinare Riccia possiede un clima e un tipo di terreno che favoriscono una buona coltivazione di legumi e cereali. Un giorno finalmente l’uomo fu riconosciuto, dalla popolazione di Riccia, in Giuseppe. Ecco, dunque, il motivo per cui il Santo è così venerato nel borgo molisano, la cui devozione si celebra non una, ma due volte l’anno, il 19 marzo e il 1 maggio, Giornata dei lavoratori, con una messa solenne, una processione per le strade del paese e un grande pranzo che riunisce attorno a una bella tavolata imbandita a festa ogni famiglia. Una festa che richiama ogni cittadino, ogni devoto, che solletica di gioia ogni cuore paesano. Il pranzo in onore al Santo è composto da ben tredici pietanze, a base di carne, pesce, latticini e cereali. Non mancano, ovviamente, i legumi, simbolo di devozione per i riccesi verso San Giuseppe. Non un pranzo comune, dunque, dove i calzoni, o cavuzune, sono certamente i più attesi. Essi. però, non fanno parte delle tredici portate, ma sono considerati una semplice “creanza“, un omaggio che ci si scambia in ogni dove, e che vede coinvolto ogni riccese, proprio in occasione della ricorrenza.









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