Carnevale, in Valle Telesina è tempo di scarpella e camaiola

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Foto di copertina tratta da vinicoladelsannio.it

La scarpella è un piatto molto apprezzato, rinomato, originario del comune più vitato del Sud Italia, Castelvenere. Un piatto tipico che richiama le antiche tradizioni, contadine e pastorali, riconosciuto tra i “Prodotti della gastronomia” della Campania inseriti nell’Elenco nazionale dei Prodotti agroalimentari tradizionali (Pat). Ed è proprio qui, in questo piccolo borgo, dove vigneti, uliveti, e tanto verde si perdono a vista d’occhio, che non è carnevale senza scarpella, la preparazione gastronomica dalle origini antiche, a cui ogni famiglia, nel tempo, ha apportato piccole varianti.

La nascita di questo tipico piatto del Sannio affonda nella tradizione della transumanza e dei viaggi, e per viaggi si intendono anche quelli dei pellegrini che, per secoli, hanno attraversato le terre sannite per spostarsi da Roma a Gerusalemme, o per visitare il santuario di San Michele al Gargano, o la Via Traiana per arrivare a Brindisi. Il termine Scarpèlla potrebbe indicare il diminutivo di scarpa, dal germanico skarpa (“tasca di pelle”), ma è probabile anche la derivazione dal germanico, skalk (“servo”), termine con cui i Longobardi indicavano il servitore che aveva il compito di trinciare le carni e servirle ai commensali. La parola pelle, inoltre, richiama proprio al riempimento, per cui parliamo di un piatto “riempito di carne”, da consumare prima della Quaresima. A carnevale, maggiormente, nel giorno Grasso per eccellenza del martedì.

I Longobardi arrivarono in Italia nel 568, trasformando la carta geopolitica dei suoi territori, influenzando non di poco l’identità del popolo sannita. A Benevento, nella Langobardia Minor, si stanziarono e riuscirono a integrarsi al meglio, anche grazie alla conversione al Cristianesimo per mano del vescovo Barbato, suddetto santo del borgo sannita. Già i Romani allevavano maggiormente i maiali, considerati una vera e propria ricchezza. Ed era proprio la carne suina che trionfava nelle tavolate imbandite per i festeggiamenti sacri, in cui per lo più si preparavano piatti con abbondanza di uova, formaggio, salumi, ingredienti ricchi, che davano il senso della salute e dell’abbondanza, ma che erano sempre presenti nelle dispense da viaggio dei pastori e di ogni famiglia.

Non solo carne, per la scarpella, non solo uova, ma un primo piatto di pasta che può considerarsi pasto unico per la festività più festosa e colorata che ci sia. E anche questa pietanza è festosa, colorata, ricca, dal sapore goliardico ma sopraffino, che mette in evidenza tutte le materie prime e le prelibatezze che l’entroterra sannita riesce a donare. L’aspetto esterno della scarpella è molto vicino a quello di una frittata di pasta, ma in realtà si tratta di una sorta di lasagna bianca cotta al forno a legna, con ingredienti misti, variabili e legati maggiormente a prodotti di allevamento e caseari.

Un antico documento feudale di Castelvenere dice che, all’epoca, le donne del posto erano soprattutto dedite a “crescere pulli et altri animali per servitio et guadagnio di lloro Case”. Uova in abbondanza, uova che richiamano alla ricchezza gastronomica dei piatti tipici del periodo primaverile, ma anche di quello che lo precede. Una terra di allevatori, di latte e mungiture, di formaggi per i ripieni. In questo caso, il “primo sale”, uno dei beni primari della zona, era considerato merce di scambio, modalità di pagamento o baratto da parte dei pastori verso i contadini che li ospitavano nelle loro terre quando, nel periodo della transumanza, attraversavano le vie erbose sannite. Non solo primo sale, si può tranquillamente usare anche il pecorino da grattugia. E poi la salsiccia, quella carne di maiale che nel Sannio è così tanto amata, la cui lavorazione viene effettuata proprio poche settimane prima della ricorrenza carnevalesca. La pasta, poi, è la ricchezza per eccellenza di ogni dispensa, una ricchezza che accompagnava i pasti di qualsiasi genere di commensale, qualsiasi fosse la sua estrazione sociale. E la scarpella è una sorta di sformato ripieno di pasta di ogni genere, prevalentemente corta, per lo più perciatelli o mezzi ziti. Un tipico piatto di recupero del carnevale, nel periodo di transizione verso l’astinenza (carnem levare), e quindi destinato all’esaurimento di eventuali rimanenze presenti nelle dispense casalinghe in vista della Quaresima. Un preparato che richiama anche il timballo di scrippelle abruzzese, altra terra legata essenzialmente alla pastorizia, con le sue vive reminiscenze di transumanza. Dagli altopiani del Gran Sasso, infatti, partiva una grande migrazione di capi di bestiame, migliaia e migliaia, guidati da altrettanti pastori che nella stagione autunnale scendevano verso le coste dell’Adriatico, per spingersi più giù, verso la campagna del Lazio, ma anche verso il Sannio e la Terra di Lavoro.

RICETTA (tratta da vinicoladelsannio.it): Ingredienti: 500 g di pasta (perciatelli o mezzi ziti), 250 g di salsiccia di maiale stagionata, 300 g di formaggio vaccino fresco (primo sale), 150 g di formaggio pecorino stagionato grattugiato, 70 g di olio extravergine di oliva, 8/10 uova, sugna e sale q. b..
Procedimento: lessare la pasta in abbondante acqua poco salata. Scolata la pasta ben al dente, si condisce con l’olio extravergine di oliva, quindi si pone in una teglia unta di sugna e si aggiungono il formaggio primo sale, la salsiccia tagliati a dadini, il pecorino stagionato grattugiato. Alla fine si aggiungono le uova sbattute. La ricetta tradizionale prevede la cottura posizionando la teglia sui mattoni del camino e coprendola con il “testo”, un caratteristico coperchio su cui viene posizionata brace mista a cenere. Una cottura lenta che fa sì che la scarpella acquisisca la caratteristica croccantezza. L’alternativa cottura al forno (180°) richiede circa quaranta minuti. Il tutto accompagnato da un immancabile bicchiere di Barbera del Sannio.

Uva camaiola

E a proposito di Barbera: possiamo immaginarne la presenza in Campania? Certo che no, e infatti non stiamo parlando del Barbera piemontese, ma della Camaiola, vitigno tipico della Valle Telesina, in particolar modo del piccolo borgo castelvenerese. Un’uva che in passato veniva utilizzata per il suo colore intenso, ora, fortunatamente, per soddisfare palati esigenti. Si tratta di un vitigno autoctono, che merita il rilancio, ovviamente col suo vero nome, Camaiola, terzo per ordine di importanza nello scenario produttivo dei vini rossi sanniti. Un colore rosso rubino intenso, con evidenti riflessi violacei. Parlando di Castelvenere, bisogna ricordare che suo il territorio è altamente coltivato a vigneto, tanto da ritenerlo il comune più vitato della Campania.

In passato, l’uva barbera non si prestava al trasporto, presentando un grappolo delicato, che una volta raggiunta la maturità, perde facilmente gli acini. Pertanto rimaneva in loco, dove i contadini la vinificavano esclusivamente per uso proprio. All’epoca, gli abitanti del paese, quando parlavano del vino di Castelvenere, si riferivano esclusivamente al vino Barbera. C’è però da dire che la Barbera piemontese era certamente più conosciuta, aveva addirittura fama internazionale. Fu probabilmente questo il motivo per cui si scelse lo stesso nome per il vitigno autoctono castelvenerese, un modo per poterlo rendere più appetibile all’occhio del commerciante, grazie a un appellativo che in realtà rispecchiava la fama di un altro vitigno.

Il vitigno barbera piemontese, infatti, diffuse la propria fama ovunque, anche nel Sannio, fino ad arrivare a una notevole coltura californiana, grazie a un elevato numero di barbatelle lì trasportate da emigranti piemontesi. Fu questo il motivo per cui, nello stesso periodo, a Castelvenere scomparve il nome Camaiola e si diffuse Barbera. Ecco, dunque, il vino Barbera Beneventano IGT e in seguito la denominazione DOC Sannio. La Camaiola è un vino molto leggero e piacevolmente bevibile, radicato al suo territorio, dagli acini piccoli, con una buccia molto delicata, da accompagnare a primi piatti, carni rosse, formaggi semi stagionati.









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