Immagini dal Sannio: itinerario fortorino nella terra del vento

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La chiamano “Terra del vento” e non è un caso. Parlo di quell’area che si estende nei pressi del corso del fiume Fortore, in latino Fertor, flumen portuosum, come lo definiva Plinio nella sua Naturalis historia, che segnava parzialmente il confine tra le due regioni augustee corrispondenti, in linea di massima, al Molise e alla Puglia. Due regioni in stretta comunicazione tra loro da sempre, grazie all’asse viario caratterizzato dai tratturi. Si tratta di una delle zone più ventose del Sannio, che ha sfruttato questa risorsa per diventare territorio, discusso o meno, dell’eolico, uno dei più importanti della nostra penisola. Un territorio caratterizzato da scenari naturali dal grande fascino, una terra davvero molto ricca e ospitale. Non solo Terra di vento: il Fortore è infatti conosciuto come “Terra di vento, di freddo e di neve”, e questo può darne una immagine cruda, arida, dura. Ma non è così: i suoi profili tortuosi, i terreni rigogliosi e incontaminati, i pascoli, gli uliveti, le tante sorgenti che ravvivano il suo profilo orografico, danno la possibilità di rendere giustizia alla vocazione rurale del territorio, dove salumi, formaggi, legumi, buonissimo olio extravergine d’oliva, conservano dei sapori inconfondibili, unici, ma innanzitutto naturali e genuini, che prendono vita grazie a tecniche di coltivazione antiche e lavorazioni artigianali che vengono tramandate di generazione in generazione. Una delle caratteristiche del territorio fortorino è certamente la presenza di pale eoliche. Una scelta discutibile, specialmente in aree in cui la cultura del vento non è così sentita come in questa terra di confine. Eppure, è stato proprio nel nuovo millennio che è stata realizzata la gran parte dei parchi eolici presenti in Italia. La grande maggioranza degli impianti si trova al Sud, proprio nelle aree più ventose, tra le quali spiccano Daunia e Fortore, a cavallo tra Puglia e Campania. Di notte, quando il vento ci accarezza i capelli, nel buio è possibile accorgersi delle imponenti presenze eoliche grazie alle luci rosse che le segnalano e al rumore delle pale che girano, e fanno mutare l’aria. Sono nove i comuni che oggi voglio toccare, con un itinerario virtuale e molto, molto particolare, caratterizzato da pillole di cultura e bellezza.

Panoramica della Valle del Fortore, foto di copertina di Antonio Castellitto

Castelvetere in Val Fortore è il primo paese da cui partiamo. Si trova in un territorio ricco di sorgenti, con numerosi pascoli naturali e boschi cedui. Un paesaggio ricco di colori, i colori della natura, dove chiazze di uliveti e di vigneti e ancora frutteti danno vita cromatica al territorio, così come i corsi d’acqua e i laghetti. Molte, fra l’altro, le fonti di acqua sulfuree. Siamo sulla cresta montuosa al confine con il Molise e da qui è possibile vedere la bellissima vallata fortorina in tutto il suo splendore. Il suo centro storico è davvero molto bello e caratteristico, con il Palazzo marchesale Moscatelli, seicentesco, dalla pianta irregolare. L’edificio risale al XIII secolo, è una ex dimora feudale ed è stato dichiarato monumento nazionale perché ha un “importante interesse storico e artistico”. A Castelvetere sono presenti i resti di una torre, di forma cilindrica, che risale al periodo normanno dell’XI secolo. Si trattava del nucleo primitivo intorno al quale si raggruppavano le abitazioni dei vassalli, con una base circondata da grosse pietre calcaree che richiama lo stile bizantino. Oggi è rimasto ben poco della torre in questione. La Villa comunale presenta delle statue allegoriche di ambiente mitologico/silvano, con una piazza rotonda caratterizzata da svariati mosaici che, tra le altre cose, rappresentano le costellazioni dello zodiaco, la rosa dei venti e le statue delle stagioni. La natura, in tutto il suo immenso splendore, la ritroviamo nel Bosco comunale, con una vegetazione costituita perlopiù da cerri, dove è facile imbattersi in gufi, civette, falchi, ma anche vipere. Non solo: appassionati ed esperti possono imbattersi in una grande varietà di funghi, tra le quali i prelibati porcini. San Bartolomeo in Galdo è un comune più grande del precedente, ai confini sia con la Puglia che con il Molise il cui toponimo deriva dal culto del Santo Apostolo, e dal termine di origine germanica wald, “bosco”, da cui Galdo, stante a indicare un territorio molto boscoso, che è proprio quello che circonda e caratterizza il paese, prevalentemente ricco di querce ma anche di faggi, in cui risiedono cinghiali, poiane, volpi, faine, e non solo. San Bartolomeo è il paese delle sette chiese: la Chiesa Madre fu utilizzata come cattedrale della diocesi di Vulturara ed è consacrata a San Bartolomeo Apostolo. Il suo centro storico un tempo era un abitato fortificato che aveva ben cinque porte d’accesso. San Bartolomeo è nota come città dei Murales. Dal 2010, un comitato locale organizza una manifestazione estiva che vede la realizzazione di molti murales, che vanno a adornare varie zone del paese. Nel 1976 venne realizzato il più noto di questi murales, in occasione della visita degli Inti-Illimani, che fu poi restaurato nel 2010. La musica nei murales la troviamo anche in quelli ispirati dalle canzoni Fiume Sand Creek di Fabrizio De André e Caruso di Lucio Dalla. L’agricoltura e l’allevamento sono ancora oggi le attività principali, alla base dell’economia locale.

Per arrivare a Montefalcone di Val Fortore passiamo nelle aree rurali di Foiano Valfortore, nel cuore della verde regione appenninica, terra d’antico transito a egual distanza tra Adriatico e Tirreno. Il borgo di Foiano Valfortore sorge adagiato nel fondovalle attraversato dall’omonimo fiume e conserva i resti dell’antico centro fortificato. Esso restituisce l’immagine di un popolo che in passato ha fatto della terra il centro della propria identità. Non solo: questo è uno dei comuni che ha più persone che lavorano nell’eolico. In passato attecchirono le attività dei monaci benedettini. Qui l’eremita Giovanni fondò il monastero di Santa Maria del Guardo che con le sue regole fu il promotore della civiltà del Fortore. Fu qui, dopo cinquant’anni da eremita, che il paese divenne badìa, sancendo così il dominio guelfo nelle terre fortorine. La ruralità intorno è viva grazie a numerose distese di campi di grano, erba medica, casolari e cascine che rievocano l’antica attività della pastorizia, in questa zona dura a morire. Anche Montefalcone di Val Fortore è caratterizzato dai boschi tutt’intorno. Il principale è quello ubicato in località Toppo Pagliano – Monte, esteso per ben 230 ettari. Qui prevalgono cerri e querce, e nel verdissimo territorio della zona si possono incontrare cinghiali, tassi, beccacce, gazze ladre, volpi. Qua e là numerose sorgenti. Il suo centro storico conserva ancora l’originaria impostazione medievale, tutto attorno ai pochi ruderi, oggi conservati, del castello. Si tratta di un fortilizio che aveva una pianta romboidale e che al centro conservava un cortile con una grande e profonda cisterna, che aveva la funzione di immagazzinare l’acqua piovana utilizzata durante gli eventuali assedi. Nel 1809 fu raso al suolo perché divenuto rifugio di banditi. A Montefalcone è presente anche un bel santuario, dedicato alla Madonna del Carmine, oggi meta di pellegrinaggi che ne venerano, oltre che la Vergine, proprio il luogo di culto. Degne di rilievo sono la statua settecentesca della Madonna e le vetrate istoriate, di fattura contemporanea. Il Museo della Civiltà Contadina nacque nel 1982 come mostra, ma nel 1984 divenne museo autonomo. È stato definito il museo della civiltà contadina più ricco e importante d’Italia, e ogni due anni viene celebrato da un Concorso Nazionale a premi riservato gli alunni delle scuole medie ed elementari. Al suo interno sono esposti circa 3.000 pezzi autentici, nelle particolari sale dedicate al vino, al pane, al grano, agli utensili da cucina. Il museo conserva una gigantesca macchina da pasta costruita dal mastro d’ascia Antonio Zigoli, datata 1870. Inoltre, è ivi presente un frantoio in pietra per frantumare le olive, il più antico esemplare di frantoio a forza animale che riproduce modelli che già esistevano ed erano altamente funzionali nel periodo imperiale romano.

Castelfranco in Miscano non arriva a contare i mille abitanti. A circa 3 chilometri dal suo centro storico vi è l’ex feudo di San Eleuterio, dove era il vicus romano di Aequum Tuticum, all’incrocio fra le antiche vie Aemilia, Minucia, Traiana ed Herculea, lungo il confine con Ariano Irpino. La città osca risaliva al periodo dei Romani, ed era protetta da un arco di transito chiamato janus quadrifrons. Il centro abitato è circondato da lunghe distese di campagne pianeggianti, e il tratturello Volturara – Castelfranco, lambito dal tratturello Camporeale – Foggia, mettevano in collegamento Puglia, Irpinia e Sannio. Edifici e strutture in pietra caratterizzano il suo centro antico. Sono due le aree naturali degne di nota: le Bolle della Malvizza, il più vasto complesso di vulcanetti di fango dell’Appennino meridionale, e il Bosco di Castelfranco, sottoposto a tutela SIC, Sito di Interesse Comunitario, nel cui margine settentrionale è presente e viva una sorgente di acqua sulfurea. Prodotto tipico è Il caciocavallo vaccino PAT, ottenuto da latte di mucche di razza Bruna alimentate con foraggi di produzione locale. Il Fortore, territorio isolato, tra i suoi piatti poveri, che sapientemente conserva, preserva la naturalezza e la genuinità. Ancora più piccolo, per numero di abitanti ma non per estensione territoriale, il borgo di Ginestra degli Schiavoni, nella valle media del Miscano. Interessante è il sentiero sito alla località Costa, recuperato di recente, che si sviluppa per una lunghezza di 650 metri circa e, partendo dalla zona abitata, collega i fontanili presenti nell’area. Questo sentiero era molto utilizzato da pastori, agricoltori e allevatori per raggiungere il centro del paese. Negli ultimi anni è stata realizzata una strada interpoderale . È questo un territorio prettamente vocato alla pastorizia, alle attività agricole, zootecniche e forestali. Ma non solo. Il territorio di Ginestra è piuttosto caratterizzato dall’insediamento di parchi eolici e centrali fotovoltaiche. Renewable Energies Museum (R.E.M.) è una mostra permanente che permette di scoprire e conoscere le principali risorse naturali locali: non solo vento, ma anche acqua, sole e la rigogliosa vegetazione, per un percorso atto a percorrere la buona pratica della sostenibilità ambientale. La Chiesa Madre e la Cappella di Sant’Antonio sono dei punti di interesse.

Il borgo di San Bartolomeo in Galdo, foto di Antonio Castellitto

San Giorgio la Molara vede le origini della sua popolazione molto probabilmente nel ceppo pentro dei Sanniti. Il Castello Iazeolla è certamente il suo monumento architettonico più importante, che sorge all’interno del paese, con la sua pianta quadrangolare. Di certo ha una importanza rilevante, per via delle origini del borgo, anche il Castello di Pietramaggiore, le cui prime notizie partono dal 1137. Il fortilizio doveva avere delle imponenti dimensioni, ma di esso rimangono ruderi molto scarsi. Il lago di Mignatta rappresenta una grande risorsa vegetativa. Si tratta di un lago di origine semiartificiale, il fondale è fangoso, ricoperto da alghe, canne sommerse e rami secchi. Sentieri boschivi e viali alberati circondano il bellissimo invaso. Una sorgente di acqua sulfurea potabile, nel territorio comunale, circonda terreni coltivati a frutta e ulivi, ma una delle caratteristiche gastronomiche di San Giorgio è certamente la Marchigiana IGP, prodotta da vacche dalle carni pregiate, eccellenti e magre, dall’ottimo sapore, molto proteiche e dal basso contenuto di colesterolo. Nel corso dell’anno questa razza assume un ruolo centrale nelle manifestazioni gastronomiche interregionali, come quella organizzata a San Giorgio La Molara dove, per più giorni, si dà spazio a questo prodotto, esaltando e rievocando vecchi sapori con nuove invenzioni culinarie, in cui le carni della Marchigiana la fanno da padrona. In questa occasione è possibile degustare diversi tagli della pregiata carne cucinata in numerosi piatti della tradizione, amata in tutta Italia, vanto non solo per il Sannio. Le carni della Marchigiana vengono cucinate perlopiù su fuochi di legna aromatica, che restituisce un sapore particolare anche ai tagli più modesti. Il vitellone bianco D.O.P. può essere degustato alla brace. Il piatto tipico di quasi tutta la provincia sono gli ammugliatielli, sorta di involtini confezionati con le tenere budella di agnello, aglio, peperoncino e prezzemolo, rosolati al fuoco di legna e cosparso di aceto aromatico. Molinara è un borgo fortorino dell’Alto Sannio beneventano di poco più di mille abitanti che sorge su una collina di tufo. Una caratteristica che lo rende uno dei paesi più esclusivi del Sannio, immerso in una rigogliosa natura incontaminata. Il suo toponimo ha origini non ancora certe. Un lungo intervento di ricostruzione, lungimirante perché ha messo a segno la rivalutazione del territorio e dell’antico cuore pulsante di Molinara, ha fatto sì che nel 2016 fosse interamente restituito alla comunità il patrimonio culturale, storico, artistico della memoria collettiva, con interventi di recupero e ristrutturazione che permette di consegnare alle nuove generazioni, e a quelle future, l’identità territoriale e le radici del bel borgo fortorino, riportando in vita profumi, storie e memorie della ruralità tipica del contesto. Il progetto è stato definito il più bel lavoro di recupero della regione Campania, uno fra i tanti progetti finanziati con il Piano di Sviluppo Rurale Campania 2007-2013, Mis. 322. Interventi che non hanno affatto intaccato l’assetto originario del borgo antico, in pietra calcarea, con la sua pianta a ventaglio, attraversato da Corso Umberto I, che connette le due porte di accesso, Porta Ranna e Porta da Basso. Nel territorio si produce l’olio di oliva delle colline beneventane, che ne rappresenta il più importante prodotto agricolo. Al termine del nostro itinerario, arriviamo a San Marco dei Cavoti, borgo collinare con un centro storico molto caratteristico che si trova in una posizione tale da poter ammirare, con un colpo d’occhio, un panorama che si spinge ai monti del Partenio, al Taburno e al massiccio del Matese. Il suo tratto urbano è lambito dal torrente Tammarecchia, che confluisce nel fiume Tammaro. Proprio lungo il percorso del torrente è stato istituito un parco con un percorso naturalistico in Largo San Rocco, intitolato al pittore Ettore Cosomati, poiché poco distante dal luogo da dove egli realizzò un’acquaforte raffigurante San Marco dei Cavoti, premiata all’Esposizione Internazionale di Barcellona del 1911 con medaglia d’oro. Il suo cuore antico è molto caratteristico e ricco di storia, a partire da piazzetta Vicedomini legata a leggende spesso inverosimili, ma che restano vive nella mente di chi le ascolta. Piazza del Carmine è l’antico fulcro religioso del paese, dove è situata l’omonima chiesa, già intitolata alla SS. Annunziata, che nel corso dei secoli è stata più volte rimaneggiata. E ancora, la chiesa dedicata a San Marco Evangelista, quella dedicata a San Rocco, e la rurale chiesa dedicata a Santa Barbara. La Torre Provenzale è un elemento architettonico caratteristico del borgo fortorino, struttura in pietra a vista a pianta circolare, che in passato era un carcere, finché divenne campanile della chiesa di San Marco. Il borgo vanta percorsi museali come il Museo dell’orologio e il Museo della pubblicità, del packaging e del commercio, è conosciuto come la patria del torrone e del croccantino, vera specialità che l’Italia ci invidia.

Grazie ad Antonio Castellitto per la consueta disponibilità nei confronti di Fremondoweb








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