L’arte dei ‘vuttari’, gli artigiani della tradizione enoica sannita

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Tempo di vendemmia, di botti e tini. E se il Sannio è terra di viticoltura, è certamente anche zona in cui l’artigianato legato al mondo enoico era ed è prerogativa dell’economia territoriale. Oggi racconto un antico mestiere, memoria viva soprattutto nelle zone del Sannio beneventano e di tutte le terre che danno alla lavorazione del vino la priorità. Un documento storico, infatti, testimonia che già a Solopaca, nel 1100, vi era una nutrita presenza di vuttari, e certamente così era in tutto il territorio sannita (e non solo) a vocazione vitivinicola. Nell’antichità il vino era conservato, in maniera molto approssimativa, in vasche di pietra, ma anche in otri di pelle. Quando doveva essere trasportato veniva messo in anfore, giare e altri recipienti di terracotta tappati con sugheri e sigillati con pece, argilla o gesso. I primi che sostituirono quei fragili contenitori con rudimentali tronchi d’albero scavati all’interno, antesignani della botte, furono i Celti.

Quello del bottaio era considerato un mestiere che potevano esercitare solo i privilegiati, che, inoltre, costruivano a mano anche tini, mastelli e altri oggetti in legno. Ci voleva pazienza, conoscenza, tempo. Un mestiere faticoso e particolarmente delicato in tutte le fasi della lavorazione, a partire dalla scelta del legname per la fabbricazione dei recipienti, che doveva avere caratteristiche di compattezza ed elasticità. Non tutti potevano avere la stessa precisione, né l’esperienza adatta a piallare per bene le doghe e a metterle l’una accanto all’altra, senza alcuno sfiato, unite tra loro da cerchi di ferro.

La frase che più conosciamo inerente al mondo dei bottai è “dare un corpo al cerchio e un altro alla botte”, a indicare la precisione con cui i mastri bottai sistemavano le doghe e contemporaneamente incurvavano il ferro di sostegno. Costruire botti era un’arte che consentiva di dare al vino il giusto sapo­re. Per i vini pregiati, utilizzavano legno di rovere ma anche di castagno o quercia. Spesso si imbattevano nella costruzione di grandi botti monumentali, capaci anche di duecento ettolitri.

L’importanza del mastro bottaio è cresciuta nel periodo tardo medievale, attorno al XII secolo, grazie al forte impulso alla produzione dato dai monaci benedettini e dai cistercensi, che predicarono secondo il principio dell’ “Ora et labora”, ma anche grazie al miglioramento delle tecniche di conservazione e all’importanza che acquisì la corporazione dei vinai fino ai secoli successivi. Nelle campagne era altresì diffusa l’abitudine di produrre e conservare in casa il vino destinato al consumo domestico, come avviene ancora oggi, e ogni cascina possedeva almeno una botte. Spesso i bottai si imbattevano nella costruzione di grandi botti monumentali, capaci anche di duecento ettolitri. Prima di tutto sceglievano l’albero adatto alla costruzione dei loro contenitori, lo abbattevano subito dopo il plenilunio e lo tagliavano quando la luna era calante in modo che il legno risultasse più stabile. Prima di poter essere utilizzato, doveva essere sottoposto a una lunga stagionatura, affinché l’umidità venisse ridotta, ma anche perché gli aromi risultassero migliori.

Era necessario avere a disposizione grandi spazi perché le cataste di legno di tanto in tanto dovevano essere completamente ribaltate per prevenire il marciume e favorire una migliore areazione. Facevano parte integrante del lavoro del bottaio anche le periodiche operazioni di manutenzione e riparazione dei recipienti. Dopo i travasi o gli imbottigliamenti, gli artigiani eseguivano pulizie e lavaggi con vapore e acqua salata, per evitare muffe e cattivi odori. Con il passare del tempo, le botti sono state sostituite da contenitori d’acciaio o vetroresina, più economici e durevoli e più facili da pulire, e il mestiere dei vuttari, dato lo sviluppo tecnologico, è gradualmente scomparso. Oggi, inoltre, anche i recipienti in legno vengono sempre più spesso prodotti industrialmente, da utilizzare soltanto per vini e liquori pregiati. Di bottai, oggi, non se ne contano quasi più, se non sulle dita di una mano.









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